L'IMPRONTA CAPRINA DELLA CHIESA DI SAN DOMENICO

L’impronta Caprina 



Nella fiancata della chiesa di San Domenico, (sul parcheggio di Piazza Sacrati) ex ingresso dell’ Oratorio di Santa Croce, un tempo sede del tribunale e delle prigioni dell’inquisizione, c’è una porta dove, sulmarmo dello stipite di destra, è impresso un segno che ricorda un’orma caprina o un artiglio del diavolo. Sarà che questa chiesa era il luogo della Santa Inquisizione che puniva stregoni e eretici, sarà che qui i frati domenicani praticavano riti di esorcismo, sta di fatto che attorno a questo segno, è nata una leggenda. Una volta i terreni del Barco, che si estendevano a Nord ella città, oltre le mura difensive, erano una vasta riserva di caccia degli Estensi, area popolata da una ricca selvaggina, luogo ideale per i duchi e il loro seguito di ospiti e cortigiani. Alla fine del dominio estense, i terreni
del Barco si trasformarono in un rifugio sicuro per briganti e malfattori. Solo in seguito tra le macchie di arbusti si edificarono alcuni casolari, attorno ai quali venivano coltivati orti, grano e erba
medica.L’ isolamento e la solitudine, facevano nascere nei pochi abitanti del luogo strane credenze, alimentate dai suoni notturni e dagli inspiegabili fenomeni della natura. Il vento che sibilava tra i pioppi e scivolava giù per le cappe dei camini, si credeva fosse il lugubre lamento di un misterioso individuo che si aggirava nei paraggi e chiamato da tutti Urlone.
Secondo il racconto popolare, questo misterioso essere, sarebbe giunto a rifugiarsi nel Barco, quando il suo padrone, l’ingegnere idraulico Bartolomeo Chiozzi, noto in città come Mago Chiozzino, si era rivolto ai padri domenicani con l’intento di farsi liberare da un patto che aveva stipulato con il  diavolo.
Era accaduto a metà del 1700, quando, giunto a Ferrara da Mantova per tentare di tenere sotto controllo le piene del Po, frugando nella cantina del palazzo dove abitava, in via Grande 29 (attuale Via Ripagrande) aveva trovato un vecchio manuale di formule magiche. Pronunciandone una ad alta voce, all’improvviso apparve un essere dal corpo sgraziato e dallo sguardo gelido che, con tono cavernoso, disse di chiamarsi Magrino e che essendo stato evocato, si metteva al suo servizio.
Gli interventi dell’Ing. Chiozzi sul fiume Po ebbero successo, ma furono considerati dal popolino schiavo dell’ignoranza e della superstizione il risultato del potere magico, conferitogli da quello strano servitore che sempre lo seguiva. Sua moglie Cecilia, donna pia a devota, addolorata per la triste fama del marito, si recava spesso in chiesa e, dopo tante preghiere e generose offerte,
aveva ottenuto la grazia di convincere il marito a farsi esorcizzare. Lo accompagnò quindi nella chiesa di San Domenico e nel momento in cui stava ricevendo la benedizione liberatoria sopraggiunse il servo fedele Magrino che, nel tentativo di avvicinarsi al padrone, venne sfiorato da alcune gocce di acqua santa. Al contatto con l’acqua benedetta, il ventre si gonfiò a dismisura, gli occhi divennero di fuoco, mentre i piedi divennero di forma caprina. Pazzo di rabbia sferrò un calco sullo stipite della porta, con una tale violenza da lasciare impressa nel marmo l’impronta del piede. Urlando e imprecando prese a correre fino ad arrivare e perdersi nelle terre del Barco.
In questo luogo, continuò a vagare per anni e anni, a spaventare gli abitanti con i suoi lamenti, a manifestarsi e apparendo alle persone, mutando sempre il proprio aspetto.
A volte si presentava come un mendicante, dalla barba lunga e incolta, oppure appariva dal nulla avvolto nel saio di un frate cercatore. In altre occasioni prendeva le sembianze dell’Uomo Silvano, un gigante che si muoveva a passo lento e pesante, agitando una canna in cima alla quale aveva legato un mazzetto di penne di tacchino.
I barcaioli e i mugnai del Po lo accusavano di provocare le piene e gli straripamenti del fiume mentre i contadini gli attribuivano la colpa delle grandinate. Al tramonto, per scongiurare i danni che l’Urlone avrebbe potuto arrecare, avvicinandosi alle case, gli abitanti bruciavano sulle soglie delle porte, foglie di ulivo benedetto e appoggiavano alle pareti gli attrezzi da lavoro disponendoli a forma di croce. Si racconta di una giovane contadina che una mattina percorreva di buon’ora un sentiero tra i campi del Barco, per raggiungere la città con un cesto di un centinaio di uova fresche da vendere al mercato. Camminava spedita nel silenzio della campagna, quando all’improvviso comparve un uomo alto e corpulento che le corse incontro urlando e battendo le mani con forte schiamazzo. Le uova all’improvviso si schiusero e dal cesto della povera donna svolazzarono fuori cento pulcini che in un baleno svanirono nel nulla assieme all’autore della magia.
Terrorizzata dallo spavento e addolorata per il danno subito la poverina tornò a casa con i gusci delle uova rotte e passo passò il resto dei suoi giorni a raccontare quella incredibile vicenda.

 (Tratto da: A Ferrara nei
Luoghi del Mistero di Maria Teresa Mistri Parente Ed. Cartografica).

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