La storia vera dell'inutile strage di felini nel medioevo
Partendo dal “Listone” (piazza Trento e Trieste) e percorrendo via Mazzini, ci si addentra nella zona di quello che, tra il 1627 e il 1859, fu il ghetto ebraico di Ferrara. Passato l’incrocio con via Vignatagliata, ci si imbatte (guardando a destra) in una via stretta, lunga e tortuosa, via della Vittoria. Sulla lapide viaria, colpisce il curioso nome che la strada portò fino alla chiusura del ghetto, precisamente fino al 7 febbraio 1860: via gattamarcia. Il nome è di quelli che, suscitando immagini ripugnanti, solletica però la curiosità del viandante. Gerolamo Melchiorri, nel suo lavoro “Le piazze e le strade di Ferrara”, riporta che il nome di “gattamarcia” deriva dall’abitudine degli antichi abitanti della via di gettare i gatti dall’alto, lasciando poi imputridire i cadaveri degli stessi per la strada. A che cosa si doveva questa deplorevole abitudine? La risposta si può trovare ripercorrendo la storia a ritroso lungo i secoli, ben prima dell’istituzione del ghetto ebraico di Ferrara da parte dello Stato Pontificio all'indomani dell’estinzione della dinastia estense (1597).
Dal 1348 fino al 1630 la città fu flagellata a più riprese dalla peste: vi furono almeno tre periodi in cui la città soffrì più o meno pesantemente la piaga, come peraltro anche il resto dell’Europa. In quel lasso di tempo si consolidò la superstizione popolare nei confronti dei felini domestici, già risalente almeno all’anno Mille, epoca in cui è documentato che nella cittadina fiamminga di Ypres vi era l’abitudine di lanciare i gatti dalle finestre per lasciarli sfracellare al suolo. Addirittura, nel 1233, Papa Gregorio IX lanciò la massima “Vox in rama”, in nome della quale fu dato inizio ad un vero e proprio sterminio di massa dei gatti. La ragione di questa crociata antifelina risiedeva nel sospetto a carico delle bestiole di incarnare nientedimeno che il diavolo, specialmente quelli neri. Molti gatti furono bruciati vivi, scorticati, bastonati, crocefissi oppure gettati dai campanili delle chiese durante le feste consacrate. I gatti erano considerati animali “eretici”: nonostante essi fossero accettati nella loro funzione di cacciatori di topi, erano considerati come intrusi nella società umana, poiché mal tolleravano la soggezione ai padroni umani, mostrandosi anzi abbastanza indifferenti, ed entravano in casa di nascosto. La natura dei felini evocava pertanto la condizione degli eretici che, insofferenti all’addomesticamento della religione, sfidavano l’ortodossia della dottrina e, come i gatti, saltavano qua e là nella loro interpretazione delle credenze religiose. I gatti erano considerati dunque alleati del diavolo nella diffusione della peste: le epidemie erano ritenute punizioni divine, compiute dal maligno, e i gatti erano il principale mezzo di diffusione della Morte Nera. Se gli abitanti della Ferrara Medievale avessero saputo che i gatti erano probabilmente l’arma più efficace che avevano a disposizione per combattere la diffusione del morbo, ne avrebbero avuto più alta considerazione. La superstizione non fece altro che aggravare le epidemie di peste: senza i gatti, mancava il predatore naturale del vero portatore del morbo, il topo. L’uccisione dei gatti continuò sino al XVII secolo circa, contribuendo a rendere la peste uno dei flagelli più letali dell’umanità.
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